Ubah Cristina Ali Farah
Warscapes Corona Notebooks May 4, 2020Somali-Italian writer Ubah Cristina Ali Farah shares an excerpt from the novel she has been working on. As the pandemic forced people around her to return home, Farah found herself asking what really constitutes home. In excerpt, below in Italian and English, characters in war-struck Mogadishu of 1943 grapple with similar questions.
I take the future of humanity to heart. Sometimes I think it a blasphemy that I am not feeling burdened by this isolation. I don’t suffer solitude. I am not alone. I live surrounded by mythical and real characters and I am not in a township packed with people. I am in Stellenbosch, South Africa. Many foreigners have flown back to their country on emergency repatriation flights. But I decided to stay. If we sideline everyone’s destiny on this planet, then it becomes ours. If the pandemic caught me here, there must be a reason. There is no homeland that matters. I write all day in a golden prison.
I would like to read you an excerpt from the novel I am writing. It’s 1943 in Mogadishu. The English have occupied Somalia and Italy has lost its colonies. Convoys of white ships have been organized to bring Italian women and children (below the age of 15) back to their homeland. Enrico and Clara board with their mother. Enrico is older than fifteen but his mother was able to forge a document postponing his date of birth.
It took forty-five minutes to pass the coral reef and get out onto the open sea. All the people were pressed together and many were seasick. They climbed up the gangway and once they were on the deck of the ship his mother finally breathed a sigh of relief: Enrico was safe. The Red Cross nurses welcomed them by offering juices and crunchy buns with prosciutto that melted in the mouth, a treat after two years of rationing. The magic was broken by a sailor who screamed at the refugees: “You fools! Why did you leave?” Other men from the crew joined him in a chorus: “Why are you getting repatriated? Italy is at war, we are losing, it’s all in ruin!" "You were safe in your own home here, food was scarce but at least you were not risking your life!" "In Italy people are dying under the bombs!”
Enrico was sulking and Clara held his arm: “What’s wrong? Are you worried about papa?”
“No, I should confess my real age, I should renounce the repatriation, and get back to the land on the barge.”
“What are you talking about? After all the trouble mom went through to get you the documents! Do you want her to die of a heartache?”
“I feel like a deserter. When your homeland is at war you must fight until victory or death.”
Clara began to think about what repatriation meant and why her mother had done everything to board that ship. Neither she nor Enrico knew Italy other than from books. Home for them had always been Mogadishu. They knew that their father, like many other Italian men, had left the misery of his small town in Veneto to seek a fortune. In Africa, everyone said, if you work hard you can build a future. After a proxy marriage, his wife joined him as soon as he had settled.
Clara wondered whether it made any sense to repatriate to a country at war when they were safe in their own home. Something was amiss in that logic. Was homeland home or was home homeland? Was this the reason why her brother did not want to leave?
Translation by Veruska Cantelli.
Le sorti dell’umanità mi stanno a cuore. A volte mi sembra persino blasfemo ammettere che l’isolamento non mi pesa. Ciò che non mi pesa è la solitudine. Non sono sola, vivo circondata da personaggi mitici o reali. E non sono in una township, tra la gente affastellata. Sono a Stellenbosch in Sudafrica. Molti stranieri sono rientrati nei loro rispettivi paesi con i voli di rimpatrio. Ho deciso di restare. Se appartiamo a questo pianeta il destino di tutti ci è proprio. Se la pandemia mi ha sorpresa qui, deve esserci una ragione. Non c’è patria che tenga. Scrivo tutto il giorno in una prigione dorata.
Vi leggo un passaggio inedito del romanzo a cui sto lavorando. Siamo nel 1943 a Mogadiscio. Gli inglesi hanno occupato la Somalia e l’Italia ha perso le sue colonie. Viene organizzato un convoglio di navi bianche per riportare donne e figli degli italiani (minori di 15 anni) in patria. Enrico e Clara si imbarcano insieme alla loro madre. Enrico ha superato il limite di età, ma la madre è riuscita a falsificarne il documento, posticipandone la data di nascita.
Ci vollero tre quarti d’ora per superare la barriera corallina e uscire in mare aperto: si stava tutti pigiati e molti soffrivano il mal di mare. Montarono sullo scalandrone e, quando furono finalmente sul ponte della nave, sua madre tirò un sospiro di sollievo: Enrico era salvo. Le crocerossine offrirono loro in benvenuto spremute e rosette croccanti al prosciutto; il prosciutto si scioglieva in bocca ed era una delizia dopo due anni di razionamento. L’incanto fu subito spezzato dal commento di un marinaio: «Illusi! Perché avete deciso di partire?» gridò rivolto ai profughi. Alla sua voce quelle di altri uomini dell’equipaggio si aggiunsero in coro: «Perché vi fate rimpatriare?» «L’Italia è in guerra, la stiamo perdendo, ci sono solo macerie!» «Qui eravate al sicuro nelle vostre case, il cibo era scarso, ma almeno non rischiavate la vita!» «In Italia si muore sotto le bombe!»
Enrico era cupo e Clara gli strinse il braccio: «Cosa c’è, sei preoccupato per il papà?»
«No, penso solo che dovrei confessare quanti anni ho veramente, rinunciare al rimpatrio e tornare a terra con la maona».
«Ma cosa dici? Con tutti gli sforzi che ha fatto la mamma per procurarsi il documento! Non vorrai mica farla morire di crepacuore?»
«Mi sento un disertore. Quando la patria è in guerra bisogna combattere fino alla vittoria o alla morte».
Clara in quel momento si chiese per la prima volta cosa significasse rimpatriare e perché la mamma avesse fatto di tutto per imbarcarsi su quella nave. Infatti, né lei né suo fratello conoscevano davvero l’Italia se non attraverso i libri: per loro casa era sempre stata soltanto Mogadiscio. Sapevano che il padre - come molti altri del resto - era partito prima della loro nascita per fare fortuna, perché ai suoi tempi c’era molta miseria nel paesino veneto dov’era cresciuto. In Africa invece, a detta di tutti, lavorando duro ci si poteva costruire un avvenire. La moglie sposata per procura l’aveva raggiunto appena si era sistemato.
Clara si chiedeva se avesse davvero senso rimpatriare in un paese in guerra, quando a casa loro se ne stavano al sicuro. Qualcosa le sfuggiva di quel ragionamento: patria corrispondeva a casa o piuttosto era casa la patria? Forse era per questa ragione che suo fratello non voleva andarsene?
Note: The author wishes to thank the Archivio Somalia at the Centro Studi Somali located at Roma Tre Università Degli Studi for the images presented in the video.
Ubah Cristina Ali Farah is a Somali-Italian writer, performer and activist. Her novel Madre piccola (2007) was awarded the prestigious Vittorini Prize and has been translated into Dutch and English. She is currently an artist-in-residence at Stellenbosch Institute of Advanced Study in South Africa.